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Problemi dei musei sociali, 2

Pubblicato il 20 . 03 . 2013

Dopo la disavventura della Cinémathèque, è il Jeu de Paume a cadere vittima delle regole di Facebook (ne rendono conto, tra gli altri, Libération e Numerama) e questo rappresenta a mio avvisio un nuovo spunto per alcune riflessioni, forse un po’ scoordinate, sull’uso dei social network da parte dei musei.

Il fatto ed i precedenti

In seguito alla pubblicazione su Facebook di nudo, una fotografia di Laure Albin Guillot, il museo ha ricevuto la segnalazione che il contenuto inserito era stato rimosso, ed il profilo dell’istituzione sospeso: la fotografia era stata considerata in violazione delle condizioni d’uso stabilite dalla società.

Si tratta di una sorpresa? Affatto. Non solo il museo ha sicuramente preso conoscenza dei termini d’uso di Facebook prima di accettarli, ma ha certamente saputo di quanto capitato alla Cinémathèque poco fa; sa senza dubbio che un utente che usava L’origine du monde di Courbet come immagine del suo profilo venne sospeso (il quadro ha causato altri casi simili); non ignora forse che un disegno del New Yorker che mostrava dei seni venne rifiutato come pure è stato per, tornando nell’ambito dei musei, un’opera di Gerhard Richter pubblicata quest’estate dal Centre Pompidou.

Censura?

Seguendo passo passo tutti coloro che hanno preceduto il museo in questo tipo di incidenti, il museo ha alternato sorpresa e sdegno per la censura operata da Facebook. Se la disdetta per il vedere cassato il proprio lavoro appare assolutamente comprensibile, la sorpresa certo non lo è, come abbiamo visto, e così come non lo è il lamentarsi di censura.

Una lettura, anche molto superficiale, delle condizioni d’uso chiarisce senza possibilità di equivoco alcuna che quando si è su Facebook si è “in casa d’altri”, e precisamente, di una società privata, quotata in borsa (per quanto in maniera disastrata), ed avente come fine il guadagno (o, quanto meno, il rimborsare gli investitori). Ben poco sorprendente, senza dubbio, che nei suoi spazi (i contenuti che appaiono su Facebook sono custoditi sui server di sua proprietà), il padrone di casa imponga le sue regole. Il Jeu de Paume stesso, del resto, agisce nello stesso modo, definendo quanto è ammesso o vietato nelle sue sale, con una significativa differenza: in quanto istituzione pubblica, le sue scelte devono essere improntate all’interesse generale, mentre Facebook non ha che da curarsi dei suoi interessi privati.

Quale paradigma culturale

Già ripreso più volte per lo stesso tipo di problema, per l’avvenire il museo si ripromette di astenersene:

Au prochain avertissement de Facebook, notre compte risque d’être définitivement désactivé. Aussi nous ne publierons plus de nus, même si nous pensons que leur valeur artistique est grande

Un’istituzione culturale decide dunque di piegarsi alle scelte di una società commerciale, Facebook, in ambito culturale. Se tra le varie ragioni per criticare l’operazione del Louvre Abu Dhabi era stata evocata la condizione problematica del nudo nella società araba, pare di potere affermare che anche l’adesione a Facebook (e, volendo generalizzare, ai social network statunitensi) ponga un problema di compatibilità del modello culturale: il nudo è ugualmente ricusato, non più dall’interdetto religioso musulmano ma dal puritanesimo statunitense, figlio dell’interdetto religioso protestante. Un problema che non è stato valutato a sufficienza, con la conseguenza che gli attori della cultura nelle nostre società (nelle more, di quella francese, ma ben poco basterebbe perché lo stesso copione si verificasse in Italia o altrove in Europa) sottostanno ad un paradigma culturale eterodeterminato.

Le parole di Gonzague Gauthier, chargé de projets numériques au Centre Pompidou chiariscono come sia effettivamente in atto un processo inaccettabile per un’istituzione culturale:

Il n’y a pas d’exception culturelle chez FB; tout est traité comme si ce réseau était le vecteur univoque d’une pensée lisse où l’image n’a qu’un sens: un nu de face est condamnable, quelle que soit sa nature. Il est très difficile pour une institution artistique (a fortiori des artistes, activistes, etc.) de faire valoir une pensée plus complexe sans qu’elle passe sous les fourches caudines du puritanisme. Surtout en image (notons que l’image est l’une des forces de Facebook et des RSN en général - elle porte souvent des enjeux commerciaux).

Que la suppression du Nu descendant un escalier de Richter soit automatique après l’affaire du Courbet est encore plus dommageable : là où on aurait pu (à grand-peine) justifier que FB ne savait pas la première fois, on ne peut plus penser qu’une chose maintenant: cela fait partie de leur stratégie. Une stratégie dans laquelle il ne faut prendre aucun risque (face aux investisseurs, face aux utilisateurs individuels, etc.). Il ne faut froisser personne, et dans ce contexte une pratique artistique est bien difficile à exposer. N’y a-t-il dans ce cas qu’une sorte d’art qui puisse être publié?

La preoccupazione espressa in queste parole, ossia il garantire alle istituzioni artistiche la possibilità di trattare la varietà delle espressioni artistiche, non può che essere condivisa, e non si può che auspicare che un museo rimuova gli ostacoli di questo genere. L’ostacolo è il regolamento di FaceBook? La soluzione più efficace è non usare la piattaforma.

A prescindere dalla pseudo censura

La censura di cui si lamentano i musei differisce da quella conosciuta dal vocabolario Treccani, caratterizzata dall’essere imposta dal potere politico o militare e dall’applicarsi allo spazio pubblico (o anche allo scambio privato, oltre a quello pubblico). La censura che subiscono i musei è diversa perché definita da un attore privato, per l’applicarsi all’interno della sua proprietà e perché approvata da chi vi sottostà, differenza tale da rendere inappropriato il termine.

Il modello economico di Facebook è imperniato sulla pubblicità e l’interesse della società è quindi di massimizzare il numero di pagine che gli utenti visualizzano, dunque di riunire sulla sua piattaforma un alto numero di contenuti capaci di mantenere il pubblico sulle sue pagine, compito del quale si fanno carico gli utenti. Caricando contenuti su Facebook, potremmo dire che i musei (non solo loro, ovviamente, ma è di loro che discutiamo) lavorano per quest’ultimo.

Vale poi la pena di ricordare nuovamente che il prodotto del lavoro è proprietà di Facebook: dei contenuti introdotti sulla piattaforma la società può disporre a suo piacimento, usandoli, o autorizzando terzi ad usarli (come è già accaduto). I musei non sono del tutto ignari di questo problema, tanto che il nuovissimo sito del Centre Pompidou non consente di pubblicare delle immagini delle sue opere sulla piattaforma, come sottolineato da Lionel Maurel. Non ne ho certezza, ma è molto forte il sospetto che i musei pubblichino su Facebook fotografie delle loro opere ancora non libere da diritti scegliendo di dimenticare gli obblighi giuridici di reperimento del consenso degli aventi diritto di cui si dovrebbero fare carico.

Si può credere che, nonostante questi aspetti altamente critici, i musei scelgano di essere presenti ed attivi su Facebook per cercare di raggiungere un pubblico il più ampio possibile. Eppure, così fosse, si tratterebbe di una scelta miope: lo dimostrano i recenti cambiamenti nella distribuzione delle notizie a cura della piattaforma, che rendono più difficile raggiungere i propri destinatari (amici, fan o checchessia) a meno di pagare.

Come detto altrove, Facebook è un perfetto esempio di un sistema nel quale gli utenti hanno tutto da perdere:

Internet consumers get locked in to one company and find it difficult to escape. In the process, they lose their power. Facebook is a perfect example. You can spend a lot of time and energy learning the ins and outs of the site, and building your image on the site by posting pictures, videos, and messages. You spend a lot of time getting friends to pay attention to you, and you in turn spend a lot of time keeping track of them. If you leave Facebook, you leave both your virtual friends and your investment in the site behind.

La scelta del Musée du Jeu de Paume di abdicare alla sua autonomia culturale per potere preservare il suo profilo Facebook conferma questa eterogenesi dei fini: arrivata sulla piattaforma per pubblicizzare la sua azione culturale, l’istituzione rinuncia a mostrare certi contenuti culturali per potere restare sulla piattaforma. Che queste istituzioni vivano come censura le scelte di una società commerciale mostra come la strada intrapresa sia quella che costringe lo spazio pubblico all’interno dell’alveo di società private e baratta la libertà di espressione con la speranza (ma non la garanzia) di una vasta eco. Con una sintesi forse un po’ brutale, si può dire che in questo modo le istituzioni repubblicane, la cui missione le pone a servizio del bene comune, accettano di sottostare alle scelte di società commerciali, costituite per ottenere profitto. Gli interessi dei due attori non coincidono, e la posizione di predominanza riconosciuta da uno (l’utente) all’altro (il fornitore del servizio) chiarisce quali siano, in caso di conflitto, gli interessi che prevarranno.

Non il processo ma il mezzo

Sia chiaro, in questione non è la scelta, che pur meriterebbe un’analisi attenta, della comunicazione sulla rete da parte dei musei, della condivisione tramite le nuove tecnologie, quanto i mezzi scelti per attuare questo processo, che si rivelano in conflitto con lo stesso.

La cronaca in quest’ambito ha riguardato soprattutto Facebook e quindi Facebook viene citato a più riprese in quest’intervento, ma lo stesso discorso vale, varrà o potrebbe valere per tutte le altre strutture analoghe, che ugualmente sono costituite da una società privata, che rinchiude all’interno della propria piattaforma utenti e contenuti, sottoponendoli ad un controllo centralizzato, che rivendica diritti sui contenuti prodotti dagli utenti: Facebook non è che qualche passo avanti sulla strada che stanno percorrendo anche i suoi avversari.

In quanto decentralizzate, invece, soluzioni come Diaspora, il progetto identi.ca, o Tent, per citare solo le tre più insigni o promettenti (e per tacere dei blog), rappresentano dei mezzi ben più adatti allo scopo.